Per la presentazione del libro a Parma di Cécile Kyenge:
«Si può fare cultura anche da immigrati». Esordisce così, Cécile Kyenge, durante l’evento promosso da Cleophas
Adrien Dioma, direttore artistico del Festival Ottobre Africano in
collaborazione con la Libreria Fiaccadori, che ha ospitato l’appuntamento e il
PD di Parma in occasione della presentazione del suo libro “Ho sognato una strada. I diritti di tutti”,
(Piemme Edizioni).
A conversare con la
deputata c’è Adele Tonini che tenta di toccare tutti i punti cari alla Kyenge:
la partecipazione attiva degli stranieri alla vita del paese, il diritto alla
cittadinanza, il diritto di voto, l’importanza dell’azione non violenta.
L’incontro con la deputata, ex ministro per l’Integrazione, parte inizialmente
con temi che la coinvolgono dal punto di vista politico. Ma il suo libro, non è
un manifesto politico è il racconto della storia della Kyenge una volta
arrivata in Italia, molti anni fa.
Dedicato alle sue guide
spirituali Nelson Mandela e Martin Luther King, condivide la sua storia
ricordando i principi basilari che dovrebbero riguardare tutti, non solo gli
stranieri, come il diritto a sognare: -«Mentre finivo di scrivere il libro mi è
arrivata la notizia della morte di Nelson Mandela. Mio grande desiderio sarebbe
stato quello di far scrivere la prefazione del libro a lui. Con la sua
scomparsa non ho più messo la prefazione e tutto il terzo capitolo è dedicato a
lui. Dedico il libro anche alle mie figlie e attraverso loro a tutti i giovani.
Vorrei che il mio racconto sia anche un manifesto contro la rassegnazione, è
importante partire dal proprio sogno per arrivare anche ad un progetto
collettivo, è un invito a fermarsi e riflettere. E’ anche un testamento
culturale. Io ho sognato una strada ma non è detto che io ne veda la fine. Noi
lasceremo gli strumenti idonei per continuare in questo “viaggio” a chi verrà
dopo di noi. Dobbiamo accompagnare i giovani a rendersi conto che con la
determinazione e la fede possono arrivare lontano e non devono
dimenticarsene.»-
Una determinazione che appare più che evidente nella parte in cui si
legge di una Cécile che s’iscrive in medicina nel suo paese di origine ma
l’iscrizione non viene formalizzata per essere poi spostata, d’ufficio, alla
facoltà di Farmacia: -«Alle cinque del mattino mi svegliavo e alle sei e mezza
ero seduta in prima fila insieme ad altre ottocento persone. Io passavo gli appunti a tutti, non a
Farmacia ma alla facoltà di Medicina! Non ho mai messo piede in un’aula di
Farmacia e andavo tutti i giorni dal Rettore a dirgli che si erano sbagliati e
che dovevano iscrivermi a medicina.»
Nella narrazione di Cécile riveste un particolare significato
simbolico una valigia azzurra: -«Sono partita con una valigia azzurra enorme.
Non sono andata a cercarla o a comprarla apposta. I migranti non andavano di
certo a fare shopping prima della partenza, si partiva con quello che si aveva.
Io in casa avevo questa valigia. Era praticamente vuota, dentro i miei vestiti,
qualche libro e una sola certezza: di sapere di avere diritto allo studio, di
avere il diritto di inseguire il mio sogno di studiare medicina. La mia storia
da migrante partita con quella valigia assurda, non è tanto diversa da quella
degli altri. Io sono diventata quella che sono perché non mi sono mai arresa.
Molti dicono che per me è stato diverso, visto che ho studiato e che sono
medico, ma per molti versi mi è andata peggio di molti altri. Appena arrivata
in Italia, diciannovenne, venni subito derubata in albergo, chi doveva
assegnarmi la borsa di studio morì d’infarto il giorno stesso del mio arrivo,
quindi nessuno era stato messo al corrente della mia situazione.»-
Nella storia di Cécile sembra che il destino si sia divertito a
mettere le mani è ovunque a partire da uno scambio di persona: -«Persi l’esame
di ammissione alla facoltà di medicina, per un giorno solo, perché il mio aereo
arrivò in ritardo. Il vescovo della mia città mi aveva dato una lettera
dicendomi che in caso di bisogno potevo andare dal sacerdote indicato nella
lettera. Il portinaio si sbagliò e chiamo padre Bechesh anziché padre Becher.
Per mia fortuna era un giovane, molto dinamico, in gamba. Campendo di non
essere lui, il destinatario della lettera, non ci pensò due volte.»
Essendo il sacerdote di origine Ungherese, un rifugiato politico, con
un’esperienza da migrante alle spalle, capiva benissimo la situazione di Cécile
e l’aiuto rivelandosi decisivo in questa fase: - «Probabilmente se la lettera
fosse arrivata alla persona giusta le cose sarebbero andate diversamente e
forse oggi io non sarei qui. Padre Bechesh è stato la mia guida durante gli
anni della laurea. Dopo un anno dal mio arrivo, incontrai il sacerdote
destinatario originale della lettera: era un anziano, sordo, cieco e sulla
sedia a rotelle. Probabilmente non sarebbe stato in grado di aiutarmi.»-
Ricorda la responsabilità delle famiglie, degli adulti nell’approccio
che possono usare con gli altri, l’importanza del confronto positivo: -«Questa
mattina, prima di venire qui, sono stata in una scuola media e ho parlato con i
ragazzi. Ho chiesto ad uno di loro a caso di indicarmi il suo migliore amico e
di spiegarmi come mai si fossero scelti. Lui mi ha dato delle motivazioni più
che normali: passioni, interessi o il fatto di essere cresciuti insieme fin da
piccoli. Uno dei due amici era italiano, l’altro marocchino. Nessuno dei due ha
definito l’amico per l’origine o il colore della pelle. E’ importante partire
dal valore delle persone, dal capitale umano piuttosto che dalle differenze
razziali.»-
Ascoltare l’autrice parlare del libro e
della sua vita ha fatto emergere il suo carattere di donna e non solo di
deputata. Una donna forte, determinata che ha affrontato “una Roma” non sempre
amichevole, vittima di strumentalizzazioni e di prese in giro. Orgogliosa di
aver affrontato dei temi tabù in un’Italia, non sempre comprensiva, ma che le
ha dato tanto e he continua a farlo. Lei non si arrende e promette di
continuare a parlare d’immigrazione, integrazione, cittadinanza e soprattutto
il diritto all’uguaglianza.
Maroua El Baoui